PACTA SUNT SERVANDA Il principio mantiene la sua natura di verità assiomatica pur nel tempo della emergenza coronavirus?

Pubblicato da il 27 ottobre, 2020

Si registrano in questo periodo, in materia di locazioni commerciali, provvedimenti adottati in varie sedi di Tribunale con i quali, a fronte della opposizione spiegata dalla parte conduttrice alla intimazione di sfratto per morosità, sono state denegate le ordinanze di rilascio ex art. 665 c.p.c. in ragione della situazione emergenziale in atto1, ovvero sul medesimo presupposto in sede cautelare è stato disposto il divieto di mettere all’incasso titoli o effetti cambiari.2 3
Non mancano, invero, provvedimenti con i quali, applicando i consueti canoni in materia di intimazione di sfratto per morosità, pur a fronte della opposizione di parte convenuta motivata dalla eccessiva onerosità della prestazione contrattuale determinata dai provvedimenti di chiusura adottati dalla autorità governativa, sono state concesse le richieste ordinanze di rilascio con riserva di eccezioni di cui all’art. 665 del codice di rito4.
Tra i provvedimenti favorevoli alla parte conduttrice si segnala però, anche per l’elevato risalto mediatico che l’ha accompagnata, la decisione adottata dal Tribunale di Roma che, con un recente arresto5, in accoglimento del ricorso ex art. 700 c.p.c., con una articolata motivazione ha accolto la domanda cautelare disponendo la riduzione dei canoni di locazione del 40% per i mesi di aprile e maggio 2020 e del 20% per i mesi da giugno 2020 a marzo 2021, disponendo altresì la sospensione della garanzia fideiussoria fino ad un’esposizione debitoria di 30.000,00 euro.

 

In sintesi la vicenda: parte conduttrice in un contratto di locazione ad uso commerciale (per attività di ristorazione) con rilevante canone mensile e con rilascio di fideiussione bancaria ha proposto nel giugno 2020 un ricorso in via d’urgenza chiedendo la riduzione del 50% del canone mensile dal mese di aprile 2020 sino al marzo 2021 con ordine alla parte locatrice di non escutere la fideiussione, ovvero, in subordine, la riduzione del canone nella stessa misura con la previsione di un piano di rientro del residuo in numero 48 rate a cadenza mensile.
A sostegno delle richieste formulate, parte conduttrice ha dedotto la violazione da parte del locatore dei canoni di buona fede in senso oggettivo e di solidarietà, derivante dalla clausola generale di buona fede e correttezza, per non aver accettato di rinegoziare le condizioni economiche del contratto di locazione pur a fronte delle sopravvenienze legate all’insorgere del Covid-19.
Il Giudice, decidendo sull’istanza cautelare in senso favorevole alla parte conduttrice seppur nella diversa misura sopra ricordata, pur avendo premesso che in base alla norma di cui all’art. 1467 del codice civile ed all’orientamento della Suprema Corte sul punto la rettifica delle condizioni contrattuali squilibrate può essere invocata solo dalla parte convenuta in giudizio con l’azione di risoluzione non potendo il contraente gravato della prestazione pretendere che il creditore accetti l’adempimento a condizioni diverse da quelle pattuite, tuttavia ha ritenuto che “lo strumento della risoluzione giudiziale del contratto “squilibrato” …..soprattutto per i contratti commerciali a lungo termine possa in alcuni casi non essere opportuna e non rispondere all’interesse della stessa parte che, subendo l’aggravamento della propria posizione contrattuale, è legittimata solo a chiedere la risoluzione del contratto e non anche la sua conservazione con equa rettifica delle condizioni contrattuali “squilibrate””.
Se pertanto, ha rilevato il Giudice, nelle locazioni commerciali “il contratto è stato stipulato “sul presupposto” di un impiego dell’immobile per l’effettivo svolgimento di attività produttiva” la crisi economica e la chiusura forzata dell’attività commerciale “devono qualificarsi quale sopravvenienza nel sostrato fattuale e giuridico che costituisce il presupposto della convenzione negoziale” di tal ché, prosegue la motivazione, “i contratti a lungo termine in applicazione dell’antico brocardo “rebus sic stantibus” debbano continuare ad essere rispettati ed applicati dai contraenti sino a quando rimangano intatti le condizioni ed i presupposti di cui essi hanno tenuto conto al momento della stipula del negozio”.
Laddove, pertanto, si verifichi tale sopravvenienza “la parte che riceverebbe uno svantaggio dal protrarsi della esecuzione del contratto alle stesse condizioni pattuite inizialmente, deve poter avere la possibilità di rinegoziare il contenuto in base al dovere generale di buona fede oggettiva (o correttezza) nella fase esecutiva del contratto (art. 1375 c.c.)” e la possibilità di esperire una azione di riduzione equitativa dei canoni di locazione in via principale, disgiunta dalla previa domanda di risoluzione per eccessiva onerosità, viene ritenuta possibile in questo caso dal Giudice Dott.ssa Grauso, richiamando le tesi sostenute in dottrina, tra gli altri, dal Roppo, potendosi affermare l’esistenza di un vero e proprio obbligo delle parti di contrattare al fine di pervenire ad un nuovo accordo “volto a riportare in equilibrio il contratto entro i limiti dell’alea normale del contratto”.
Significativa, al riguardo, la considerazione del Giudice nell’affermare che “la clausola generale di buona fede e correttezza, invero, ha la funzione di rendere flessibile l’ordinamento, consentendo la tutela di fattispecie non contemplate dal legislatore”.
Secondo il Giudice, infatti, la previsione del credito di imposta prevista dall’art. 65 del DL 18/2020 non risulta sufficiente a riportare in equilibrio il contratto entro la sua normale alea sicché “anche in presenza dell’intervento generale del legislatore per far fronte alla crisi economica causata dal Covid-19 deve ritenersi doveroso….fare ricorso alla clausola generale di buona fede e solidarietà sancito dall’art. 2 della Carta Costituzionale al fine di riportare il contratto entro i limiti dell’alea normale del contratto”.
Peraltro, conclude il Giudice, al medesimo risultato di riduzione del canone si dovrebbe pervenire pur qualificando la fattispecie come ipotesi di impossibilità della prestazione della parte locatrice di natura parziale e temporanea6 “attesa la sostanziale impossibilità di utilizzazione dei locali locati per l’attività di ristorazione, idonea ad incidere sui presupposti alla base del contratto, e che dà luogo all’applicazione del combinato disposto degli articoli 1256 c.c. (norma generale in tema di obbligazioni) e 1464 c.c. (norma speciale in materia di contratti a prestazioni corrispettive)”.
La lettura della ordinanza in commento, invero, induce talune consequenziali riflessioni apparendo lecito domandarsi se la ratio della decisione assunta debba essere valutata quale espressione di una rinnovata stagione di giurisprudenza pretoria7, ovvero se il fine manutentivo del contratto mediante riequilibrio degli assetti negoziali sia perseguito in ragione della – seppure inespressa – convinzione di poter oltre, e anche contro, la volontà delle parti meglio di loro tutelare il loro interesse sostanziale, ovvero, infine, se debba collocarsi nell’ambito del dibattito teorico circa l’ammissibilità di una equità, quale espressione di un vincolo di solidarietà derivato dai principi immanenti nella nostra carta costituzionale, che possa condurre e persino legittimare la etero-integrazione delle clausole regolatrici del rapporto, non limitata ad elementi di dettaglio non espressamente codificati, bensì penetrante gli aspetti sostanziali del negozio tra cui, in primis, l’identificazione del corrispettivo quale elemento caratterizzante il sinallagma contrattuale.
Certo, in prima battuta colpisce la rivendicazione da parte del Giudicante della propria funzione suppletiva rispetto ad un quadro normativo ritenuto inidoneo a far fronte alla situazione in essere con riferimento sia ai tradizionali istituti codicistici (in tal senso il rifiuto espresso della portata precettiva dell’art. 1467 c.c.), sia alla normativa che il legislatore ha prodotto, definita “insufficiente”, per far fronte alla situazione di emergenza in atto a fronte della quale viene affermato l’uso della clausola generale di buona fede e correttezza in funzione di rendere flessibile l’ordinamento consentendo per tale via la tutela di fattispecie non contemplate dal legislatore.
Sotto entrambi i profili, tuttavia, può sorgere legittimamente qualche perplessità, ma, ancor prima di approfondire tali aspetti, appare necessario evidenziare taluni punti cardine da cui si dipana l’impianto motivazionale del provvedimento sui quali, va detto chiaramente, si potrebbe dissentire.

L’assunto di fondo del Giudice è che il contratto di locazione commerciale venga stipulato “sul presupposto” di un impiego dell’immobile per l’effettivo svolgimento di una attività produttiva di talché la crisi economica e la chiusura forzata dell’attività vengono ad essere eventi sopravvenuti direttamente incidenti sul presupposto stesso della convenzione negoziale.
In quest’ottica l’evento sopravvenuto, non preso in considerazione al momento della stipula del rapporto, determina pertanto uno squilibrio incidente sull’alea normale del contratto di cui il locatore, secondo gli invocati canoni di buona fede e correttezza, deve farsi carico unitamente al conduttore.
E’ evidente, a questo punto, il mutamento di prospettiva operato dal Giudicante rispetto al tradizionale inquadramento dogmatico del contratto di locazione cui risultano estranei tanto il “presupposto” identificato nell’effettivo impiego del bene per lo svolgimento di una attività produttiva quanto l’alea (termine che invece ricorre molteplici volte nel corpo della ordinanza) connaturata all’attività di impresa che è di esclusiva pertinenza del conduttore.
Sul punto non possono esserci fraintendimenti: nel contratto di locazione la reciproca obbligazione si concretizza, quanto al locatore, nella messa a disposizione del locale per il periodo convenuto e, quanto al conduttore, nel pagamento del corrispettivo8 avente natura unitaria riferita all’intero periodo contrattuale, costituendo pertanto il canone oggetto di prestazione unitaria ripartita9.
Così come, pertanto, la prestazione del locatore, consistente, come detto, nella messa a disposizione del locale per il periodo convenuto, non viene meno in conseguenza dei provvedimenti autoritativi, parimenti quest’ultimi non incidono sull’uso da parte del conduttore, che permane mantenendo egli la detenzione del bene, bensì sull’utilizzo a fini commerciali. Invero, la stessa controprestazione del conduttore, che andrebbe valutata sotto il profilo dell’eccessiva onerosità sopravvenuta tenendo conto dell’intero orizzonte temporale del rapporto, non può considerarsi impossibile, posto che non è ontologicamente configurabile l’impossibilità di adempiere una obbligazione pecuniaria, dovendosi più correttamente parlare di incapacità patrimoniale del conduttore a fronte della minore, o purtroppo, temporaneamente azzerata redditività dell’attività commerciale esercitata nei locali oggetto del contratto10.
Definire, così come si legge nella ordinanza in commento, l’uso concreto ed effettivo dell’immobile a fini produttivi quale presupposto del contratto, cioè quale finalità concretamente perseguita dalle parti, con il connesso corollario della comunanza / condivisione tra conduttore e locatore dell’alea di impresa, comporta un inammissibile snaturamento della causa del negozio da astratta (godimento del bene dietro corrispettivo) a concreta mediante valorizzazione del fine (esercizio di attività economica) laddove, viceversa, la causa del contratto di locazione non tollera di essere riempita di altri interessi collegati alla natura dell’attività di impresa del conduttore.
Questo perché, così opinando, verrebbe meno la distinzione concettuale, nell’ambito dei contratti finalizzati alla concessione di un godimento, esistente tra l’utilizzo di un bene, in cui rimane circoscritta la locazione, e la fruizione di un asset produttivo in cui consiste la contigua, ma non del tutto sovrapponibile, figura dell’affitto di azienda11.
È infatti propria di questa seconda figura contrattuale la valorizzazione del fine economico perseguito dalle parti, consistendo la prestazione del concedente nella messa a disposizione di un bene produttivo, con la previsione di cui all’art. 1623 c.c., non applicabile in tema di locazione, secondo il quale, ove, in conseguenza di disposizioni di legge o di provvedimenti di autorità riguardanti la gestione produttiva, il rapporto contrattuale risulti notevolmente modificato in modo che le parti ne risentano rispettivamente una perdita e un vantaggio, può essere richiesto un aumento o una diminuzione del fitto ovvero, secondo le circostanze, lo scioglimento del contratto.
A differenza di quanto avviene, secondo il vigente assetto normativo, per il contratto di locazione in relazione al quale non è configurabile una partecipazione del locatore al cosiddetto rischio di impresa, o alea del contratto secondo l’espressione usata nella ordinanza in commento.
Dei principi codicistici in tema di impossibilità totale/parziale e di eccessiva onerosità sopravvenuta e della impossibilità di pervenire, per effetto della iniziativa unilaterale del conduttore o per via giudiziaria, alla legittimazione della sospensione/riduzione del pagamento del corrispettivo si è già avuto modo di trattare in occasione di un precedente intervento predisposto nell’ambito delle attività di studio della Commissione Condominio e Locazioni del COA di Roma al quale, per praticità, si rimanda12.
Riprendendo la lettura critica dell’ordinanza in commento sorprende la mancata disamina del Giudicante in ordine al vigente assetto normativo, però giudicato insufficiente, introdotto a più riprese dal legislatore per far fronte alla situazione di crisi determinata dalla emergenza epidemiologica in atto.
Nella parte motivata del provvedimento si fa riferimento esclusivamente alla previsione di cui all’art. 65 del DL 18/2020, il quale prevede un credito di imposta sui canoni di locazione pagati nel marzo 2020, giudicato misura troppo limitata a fronte delle perdite di esercizio lamentate da parte ricorrente.
Pur sorvolando sulla parziale indicazione del periodo considerato ai fini della individuazione del credito di imposta (il provvedimento è del 27 agosto 2020, quindi ben posteriore alla emanazione del Decreto Rilancio – n. 34/2020 – che ha esteso il periodo utile ai successivi mesi di aprile e maggio), del tutto assente appare la valutazione dell’intero quadro normativo applicabile alla fattispecie.
In effetti, norma centrale per valutare l’assetto normativo applicabile alla fattispecie, risulta essere il disposto di cui all’art. 91 del D.L. 18/2020 (che ha introdotto il comma 6 bis all’art. 3 del D.L. 6/2020) secondo cui “il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutato ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”13.
Secondo la chiara portata precettiva della norma, pertanto, ciò che viene ad essere valutabile in favore del soggetto onerato della prestazione è il ritardo nell’adempimento della prestazione derivato dalla illiquidità determinata dalla situazione emergenziale in atto.
Non viene però affermata la possibilità di eludere l’adempimento che torna possibile, e dovuto, al termine della situazione contingente, essendo espressamente previsto in favore del conduttore il solo esonero dalla responsabilità per danno patrimoniale (art. 1218 c.c.) e mancato guadagno (art. 1123 c.c.) che si accompagna alla condizione di inadempimento. Dal dettato normativo, infatti, si evince chiaramente che il legislatore, pur avendo disposto la chiusura per legge delle attività non ritenute essenziali, non ha previsto, in alcun modo, l’omessa corresponsione dei canoni di locazione, con la conseguenza che deve ragionevolmente configurarsi soltanto l’ipotesi della sospensione del pagamento stesso. Pertanto, può ritenersi che il locatore, cessato il periodo di emergenza, abbia il diritto di richiedere il pagamento dei canoni, temporaneamente “sospesi”, nell’ambito del sinallagma contrattuale esistente tra le parti. A tal riguardo, assume rilievo anche la circostanza che gli adempimenti fiscali a carico del locatore, per tale periodo di emergenza, non sono stati né eliminati né sospesi.
Ma vi è di più.
Con il Decreto Rilancio (DL 34/2020) il legislatore, con l’art. 216 comma 3, ha espressamente previsto la possibilità della riduzione del canone di locazione per il periodo da marzo a luglio 2020 per talune specifiche attività (palestre, piscine ed impianti sportivi privati).
Secondo il noto brocardo ubi lex voluit dixit, se ne deve pertanto derivare che tutti gli altri rapporti di locazione risultino, per volontà espressa del legislatore, esclusi dalla previsione di riduzione del canone sicché, a meno di non stravolgere l’assetto normativo esistente, si deve negare che in favore della parte conduttrice sia esistente un diritto alla riduzione/rinegoziazione del corrispettivo pattuito.
Residua quindi per l’interprete la possibilità di affermare la possibilità di una etero-integrazione del negozio in base ai generali principi di buona fede e correttezza?
Indubbiamente il contratto di locazione, in quanto contratto destinato a svilupparsi nel lungo periodo, è fisiologicamente esposto alle sopravvenienze, che, per effetto di mutate condizioni economiche, possono significativamente incidere sull’equilibrio del sinallagma alterando l’originale rapporto tra le prestazioni.
Negli anni passati, nella lunga stagione della legislazione vincolistica in tema di locazioni, sovente tale constatazione si è resa drammaticamente percepibile per le parti locatrici e, tuttavia, mai si è inteso derogare agli assetti normativi vigenti, forse in considerazione del fatto che mai si è attribuita loro la definizione di “parte debole” del rapporto, nonostante talvolta tale considerazione fosse stridente con la realtà fattuale dei rapporti inter partes.

Ciò non di meno, è indubbio che da alcuni decenni sia in corso una riflessione in dottrina sulla possibilità di superare, con riferimento al tema dell’inadempimento del soggetto obbligato e del connesso profilo della responsabilità del debitore, il rigido assetto derivante dalla codificazione dei principi frutto della plurisecolare tradizione giuridica.
In questo senso, il superamento di una concezione rigidamente obiettiva dell’inadempimento ha condotto a teorizzare una diversa valutazione del concetto di impossibilità temporanea della prestazione in una prospettiva di maggiore attenzione al soggetto debitore.
Apertura in tal senso nell’ambito del diritto positivo può essere considerata la previsione contenuta dall’art. 3 del D.Lgs. 231/2002 in tema di ritardi nei pagamenti delle transazioni commerciali secondo il quale è esclusa la debenza degli interessi moratori laddove il debitore dimostri che il ritardo è dipeso da causa a lui non imputabile.
In ambito contrattuale parte della dottrina ha posto al centro della propria riflessione il tema della individuazione, pur nell’ambito di una codificazione orientata a disciplinare l’inadempimento – al di fuori della spontanea collaborazione del creditore di cui all’art. 1467 c.c. – con la prospettiva della risoluzione, di possibili chiavi interpretative dell’ordinamento teleologicamente orientate alla manutenzione del rapporto piuttosto che alla sua interruzione14 individuando, in tal senso, una possibile via con la valorizzazione dei principi di buona fede e correttezza quali espressione del principio di solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione.
L’ordinanza in commento chiaramente si pone sul solco di tale riflessione facendone pratica applicazione nella fattispecie concreta, indicando alle parti una via per la manutenzione del rapporto con la rimodulazione del canone per un limitato periodo di tempo.
Sennonché appare lecito domandarsi se tale via sia percorribile nell’attuale contesto normativo.
È interessante notare come, pur nella riflessione circa l’opportunità del perseguimento della manutenzione dei rapporti di durata a fronte di sopravvenienze comportanti significativa alterazione dei rapporti, sia in dottrina presente la consapevolezza circa la necessità di interventi organici a livello normativo al di fuori della asistematica normativa emergenziale.
A tal riguardo, viene ricordata la presenza in Senato di un disegno di legge (DDL Senato 1151) per la concessione al Governo della delega per la riforma del codice civile con la previsione del “diritto della parti di contratti divenuti eccessivamente onerosi per cause eccezionali ed imprevedibili, di pretendere la rinegoziazione secondo buona fede ovvero, in caso di mancato accordo, di chiedere in giudizio l’adeguamento delle condizioni contrattuali in modo che venga ripristinata la proporzione tra le prestazioni originariamente convenute tra le parti”15.
La via tracciata dalla dottrina presuppone, quindi, un intervento del legislatore per poter entrare a pieno titolo nel tessuto connettivo della società.
Intervento normativo, tra l’altro, che non potrà non tener conto anche del “giusto contemperamento tra i contrapposti interessi dei contraenti, quello del conduttore di utilizzare l’immobile per lo svolgimento della propria attività e quello del locatore di ricavare dal bene i frutti civili; diritti che hanno entrambi rilievo sul piano dei principi costituzionali”16.
Magari superando il rigido schematismo “parte forte” / “parte debole” del rapporto, sovente del tutto disconnesso dalla realtà come acutamente rilevato in dottrina dal Perligieri secondo cui “non è individuale a priori un contraente debole”17.
Tenuto conto, non da ultimo, quanto al bilanciamento dei contrapposti interessi che anche la locazione è espressione legittima del godimento della proprietà che trova parimenti cittadinanza e tutela nella Costituzione (art. 42) anche alla luce dell’ammonimento operato dalla Corte Costituzionale circa la necessità di una interpretazione sistematica dei principi costituzionali e degli enunciati normativi al fine di evitare la prevalenza di uno dei valori coinvolti ed il sacrificio totale di alcuno di loro18.
In conclusione, al tempo del coronavirus pacta sunt servanda?
De iure condito si deve concludere in senso affermativo, de iure condendo…..

 

Articolo a cura degli Avv.ti Matteo Di Stefano e Federico Bocchini e con il contributo dell’Avv. Paolo Nesta per la Commissione Condominio e Locazioni del consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma