IL COMPAGNO MUORE? LA CASA RESTA SOLO A TEMPO

Pubblicato da il 10 novembre, 2017

Neppure la legge sulle unioni civili consente alla convivente more uxorio di restare nell’ immobile se, dopo la morte del compagno, la moglie separata e la figlia di questo ne reclamano il possesso. La compagna può restare il tempo ragionevole per trovare un alloggio. La Corte di cassazione (sentenza 10377) sottolinea l’impossibilità di applicare al caso esaminato, perché non in vigore all’epoca dei fatti, la legge sulle unioni civili (76/2016) che fissa ora in 5 anni il tempo massimo di permanenza per chi sopravvive: periodo sul quale incidono la durata della convivenza e la presenza di figli minori. Nello specifico dunque, malgrado i 47 anni di convivenza, i tempi concessi alla ricorrente per restare in casa sono stati più stretti. I giudici ricordano che il convivente non è un “ospite” ma un detentore qualificato dell’immobile nella quale si instaura la coabitazione. E il convivente superstite o “lasciato” non può essere estromesso con un’azione violenta o clandestina, essendo in tal caso legittimato all’azione di spoglio. Tuttavia il diritto a restare non va oltre i principi della buona fede e dell’“affidamento”. Il tutto ha però un termine che coincide con quello “ragionevole” concesso dall’ex compagno o dagli eredi, per trovare una sistemazione. Né la compagna, come avvenuto, può contestare a ex moglie e figlia l’illegittimo arricchimento, per aver risparmiato lo stipendio della badante: soldi che chiedeva per sé, essendosi presa cura del loro congiunto allettato per due anni. Per la Cassazione l’uomo disponeva di una pensione e comunque il legame di “affectio” che si crea nel rapporto more uxorio non può essere considerato un lavoro subordinato.